2 mesi e 10 giorni

Sono passati 2 mesi e 10 giorni da che sono in casa. Sembra vicino il momento in cui tornerò ad uscire. Molti l’hanno già fatto. Io non scalpito. In questo periodo ho vissuto dentro una bolla e questo paradossalmente mi ha concesso libertà, dato del tempo, quello che tutti ambiscono ad avere, tempo. Non so come l’ho sfruttato. Bene o male? In modo fruttuoso o guardando il cellulare? Divertendomi o annoiandomi? Mi sono fatto vincere dalla paura? Non so, nel complesso veramente non ne ho idea, in fondo è stato simile al resto della mia vita, io sono sempre io. Ciò che però so è che adesso, al momento di tornare ad uscire e quindi alla vita di prima, più o meno, non voglio. 

Mi sento come quando a 12 anni dovevo tornare a scuola dopo le vacanze, tutto in me protestava, io odiavo le medie, la fatica enorme che mi costava l’esigenza privatista del molto studio. Studiavo spesso fino a tardi, fino a mezzanotte, per riuscire a fare tutti i compiti che mi venivano imposti e poi stavo a scuola o fuori casa fino alle 18, quando i miei tornavano dal lavoro. E a volte dovevo pure andare in piscina, dove un istruttore dal nome Felice lanciava grida enormi per prepararci ad un agonismo che nessuno di noi aveva scelto, eravamo bambini. Insomma era un incubo, la mia vita di allora era un incubo. Ero il primo ad entrare a scuola, il primo. Neanche i religiosi che gestivano l’istituto si vedevano a quell’ora. I portoni d’ingresso erano semplicemente aperti e io sentivo l’eco dei miei passi per i corridoi. Andavo in chiesa, a pregare e ad aspettare che la giornata iniziasse, che qualcuno arrivasse. Se poi si trattava di essere accompagnato da mio padre, allora, facilmente, ero passato da venti minuti/mezz’ora d’auto in cui lui gridava, suonava il clacson e litigava con gli altri autisti, per raggiungere il più in fretta possibile la mia scuola e poi, a bordo dell’honda civic che qualche tempo dopo si infilò sotto ad un mezzo che aveva frenato, raggiungere il lavoro dribblando in mezzo al traffico. Un incubo, la mia vita di allora, ed è allora che il bambino che mi porto dentro ha preso a gridare ogni qual volta è portato dove non vuole. Ogni qual volta si trova su un’auto sparata che non si ferma, ogni qual volta ciò che lo attende lo spaventa, ogni qual volta si trova costretto in prigionia e in consuetudini dalle mura invalicabili, ogni qual volta sbaglia uscita e vuol tornare indietro.

La complessità dell’animo e della psiche hanno poi fatto sì che io stesso sia diventato mio padre e io stesso dunque sia diventato carceriere di quel bambino compresso e trattenuto. Ogni tanto però, lui, il bambino, prende a gridare. Per farsi sentire. Oggi come in quegli anni. Una volta, ricordo ancora, saranno state le dieci di sera, dopo cena, dovendo leggere e studiare Il Milione di Marco Polo, povero Marco Polo, presi a gridare e inveire contro quel libro di merda che non volevo leggere, contro quel libro incomprensibile e noioso che nel dettaglio mi descriveva ricchezze ed usi di gente che non capivo chi fosse. Presi a bestemmiare la cultura e sbattere il libro sul tavolo della cucina, quel libro di merda, per ammaccarlo, per danneggiarlo, per fargli del male come lui ne aveva fatto a me. E fanculo a lui e a chi me l’aveva imposto. In soggiorno, lì accanto, nessuno parve udire e nessuno si mosse, nessuno si affacciò in cucina per sollevarmi e liberarmi da quel compito e da quella pena, nessuno mi consolò e abbracciò, stringendomi a sé. Tutto taceva, nessun segno, nessun ascolto. E la mia vita continuò. Immutata.

Oggi, dunque, che fare? Come comportarmi nei confronti di quel bambino che da tempo mi comunica il suo malessere per la vita che conduco? Lo ascolto o aspetto ancora un po’? Quando avrò la dolcezza di dargli ascolto e cura nel saperlo aiutare? 

Posso mettermi al suo fianco e guardare con lui a quello che può fare, a quello che possiamo fare, rassicurarlo nelle sue paure, disegnare insieme a lui il piano per la fuga, immaginare futuri e progettare il cambiamento, mettergli una mano sulla spalla ed una sul cuore e sussurrargli nell’orecchio ...

Che non è solo. Non è più solo.


Nota per gli psicologi: So che non tutto comincia alle medie.

Nota per chi mi conosce ora: Ciao.



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