La stanza - 1


Nella stanza tutto era fermo. Una striscia di luce tagliava la penombra. Il divano accanto alla finestra, il pavimento, i libri, tutto era immobile. Solo la polvere si muoveva nell’aria. Voci attutite e rari suoni di clacson provenivano dall’esterno. Durante il giorno in pochi osavano affacciarsi in strada e affrontare il caldo sole cittadino.
Io giacevo a terra, come quasi sempre, con lo sguardo al soffitto e le mani dietro la nuca. Ero vestito di bianco. Nulla mi poteva distrarre dalla pazienza in cui ero preso. Attendevo che il giorno passasse, facevo vagare il pensiero e dormivo. Mi lasciavo già portare da fantasie, curiosità, parole e sogni, ma solo dopo il tramonto mi sarei levato in piedi, avrei scosso i pantaloni e sarei uscito all’aperto della sera, al cielo quasi stellato e buio. Superata la soglia di casa avrei respirato e sorriso, poi mi sarei incamminato per le vie della città vecchia, raccogliendo e ricambiando cenni, inchini e mani levate.
La quiete e l’immobilità del giorno erano pace, in quel periodo, il vagare della sera gioia. Solo il confronto con me stesso, il guardare alla mia vita, poteva incrinare questo scorrere degli eventi. Il nemico interiore allora mi sollecitava e, mio malgrado, prendeva il sopravvento. Tenebre e nuvole si addensavano in me e le ore si facevano insopportabili. Sudavo senza requie e piangevo, mi divincolavo e alzavo. Scrivevo, disperato pregavo.
Sono ed ero devoto a Dio, il Clemente, il Misericordioso, che ha creato ogni cosa in modo sapiente. Il tempo è suo attributo e sua regola, nulla in esso va perduto. Esiste per la vita e anche per questo lo ringraziamo nella preghiera ogni giorno, cinque volte al giorno. In quelle occasioni, però, il mio pregare si faceva grido di dannato, riprovevole strepito, delirio.
Mi tormentava il pensiero di ciò che avevo fatto quando stavo al paese, quando stavo in famiglia. E mi sembrava certa la condanna al castigo nel giorno della fine. Non avrei mai attraversato il ponte per il giardino della salvezza. Il mio bene e la mia sottomissione non avrebbero potuto compensare, sulla bilancia della giustizia, la malignità delle mie azioni, il male della passione che mi portavo addosso. Ponevo il mio capo a terra e compivo il mio dovere per allontanare me da me stesso, ma faticavo nella lotta, la pace si disperdeva e la mia fede era soffiata lontano.
Forse anche voi, se sapeste non avreste dubbi, come anch’io non ne avevo in quei momenti, tanto grave è la colpa scritta nel registro della mia vita. Quale Dio mi avrebbe evitato la caduta negli inferi, quale azione avrei mai potuto compiere a riparazione? Ogni volta ingaggiavo questa battaglia con me stesso e pregavo passasse presto la bufera. Speravo di dimenticare e prima o poi ci riuscivo, il tempo tornava a scorrere e con esso le mie giornate tornavano alla pace e alla gioia.
Lasciate però che vi racconti meglio, così che meglio possiate capire.

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